Mario Draghi e coloro i
quali tradiranno Bettino Craxi, nel 1992, contribuì a liquidare quel
patrimonio pubblico italiano, che proprio il socialista Craxi tentava
invece di salvare, ma invano, dato che, poco dopo, la democratica
Prima Repubblica crollò e implose, con il beneplacito dei poteri
forti internazionali sorosiani e liberal capitalisti e con quello dei
post-comunisti, dei leghisti e dei post-fascisti, anni dopo –
guarda un po' - tutti al governo e persino a sostenere il governo
Draghi.
Storia nota. Che anche il
Presidente Emerito Francesco Cossiga ci ricordò.
Oggi, quel Draghi che ha
sostenuto per anni una UE austera e autoreferenziale, non eletta da
nessuno, la quale ha ampiamente sostenuto politiche di distruzione
dei diritti sociali e dei lavoratori e sanzionato Paesi sovrani,
torna a parlare.
Non per dirci, ancora una
volta, assurdità quali “volete la pace o i condizionatori accesi”,
visto che sono state ampiamente smentite dai fatti, ma per dirci che
il mondo è cambiato e che i principi sui quali l'UE si fonda sono
sotto attacco.
Quali principi? Quelli
già citati?
Ci dice che “abbiamo
costruito la nostra prosperità sull'apertura e sul
multilateralismo”, ma non ci dice che, in realtà, se
aspettavamo una UE appiattita sui desiderata dei governi USA di
turno, preda da sempre di una sciocca mentalità da Guerra Fredda, al
multilateralismo non ci saremmo mai arrivati.
Ci dice che “abbiamo
creduto che la diplomazia potesse essere la base della nostra
sicurezza”, ma non ci dice che, se avessimo seguito la via
diplomatica, probabilmente il conflitto russo-ucraino non sarebbe mai
scoppiato.
E la via diplomatica ce
la indicò Silvio Berlusconi (tradito anni dopo dai suoi), nel 2015,
scrivendo, in una lettera al Corriere della Sera: “l’assenza
dei leader occidentali alle celebrazioni a Mosca per il settantesimo
anniversario della Seconda guerra mondiale è la dimostrazione di una
miopia dell’Occidente che lascia amareggiato chi, come me, da
presidente del Consiglio ha operato incessantemente per riportare la
Russia, dopo decenni di Guerra fredda, a far parte dell’Occidente”.
E proseguiva, fra le
altre cose, scrivendo: “È vero, con la Russia ci sono delle
serie questioni aperte. Per esempio la crisi ucraina. Ma sono
problemi che è ridicolo pensare di risolvere senza o contro Mosca.
Anche perché in Ucraina coesistono due ragioni altrettanto
legittime, quelle del governo di Kiev e quelle della popolazione di
lingua, cultura e sentimenti russi. Si tratta di trovare un
compromesso sostenibile fra queste ragioni, con Mosca e non contro
Mosca”.
Egli
peraltro, nel febbraio 2023, affermò: “Io a parlare con
Zelensky se fossi stato il Presidente del Consiglio non ci sarei mai
andato perché come sapete stiamo assistendo alla devastazione del
suo Paese e alla strage dei suoi soldati e dei suoi civili: bastava
che cessasse di attaccare le due repubbliche autonome del Donbass e
questo non sarebbe avvenuto, quindi giudico, molto, molto, molto
negativamente il comportamento di questo signore”.
Draghi
dice poi che “l'Europa fa fatica a rispondere”.
Grazie
tante. Non ha alcuna leadership credibile.
Come
scrissi l'estate scorsa: “L'UE, in questi decenni, ma
soprattutto anni, non ne ha azzeccata una.
Anziché gettare acqua
sul fuoco, ha preferito sostenere e armare una autocrazia (che ha
messo al bando l'opposizione di sinistra), né appartenente all'UE,
né alla NATO. Seguendo peraltro i desiderata della famiglia Biden”.
I vari Macron, Merz,
Starmer sono in crisi profonda. Hanno deluso tutte le aspettative e i
loro Paesi sono in crisi. I loro oppositori avanzano, così come
avanza l'astensionismo, fenomeno che da tempo ha ampiamente colpito
anche il nostro Paese.
Draghi, evidentemente,
non ha nulla da dire in merito, perché sarebbe costretto a fare
un'autocritica che non sarà mai disposto a fare.
Non esistono
“volenterosi”, ma solo governi liberal capitalisti che non
ascoltano i rispettivi popoli; che seguitano a proporre ricette
vecchie e di macelleria sociale; con una mentalità da Guerra Fredda
fuori dal tempo e dalla logica. Che sostengono realtà completamente
estranee ai valori democratici europei.
Mentre altre realtà
avanzano e lo fanno con pragmatismo e riformismo. Pensiamo alla
Repubblica Popolare Cinese, che promuove apertura economica, mutuo
aiuto, dialogo multilaterale, soluzioni di pace, sviluppo delle nuove
tecnologie a beneficio della comunità (e non dell'apparato e/o del
sistema finanziario), riforme continue (imparando dagli errori del
passato e facendo autocritica, cosa che i dirigenti UE non fanno
minimamente).
I dirigenti UE cosa
propongono, invece?
Il riarmo.
Non sviluppo a beneficio
della comunità in ambito educativo, scientifico, sanitario.
Dall'austerità e dalla
distruzione dei diritti sociali e dei lavoratori passiamo al riarmo.
E in mezzo c'è stata una
pandemia, di cui tutti sembrano essersene dimenticati, al punto che
il settore sanitario non è stato minimamente rafforzato. Anzi.
Che credibilità può
avere, dunque, l'UE?
A crederci solo i
fondamentalisti ultra liberali alla Draghi, che può anche parlare di
federalismo, ma di federalismo serio e pragmatico parlavano già
Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli.
Che avevano l'idea di
un'Europa federale e sociale. Non di una Europa ultra-liberale e
guerrafondaia, al servizio di un Paese d'oltreoceano.
La mia cara amica Paola
Bergamo, imprenditrice, pasionaria repubblicana come il nonno Mario,
eroe antifascista e autrice di due volumi sull'Europa (“I sentieri
interrotti dell'Europa. Sulla via tracciata da Mario Bergamo”
(scritto assieme a Angelo Giubileo) e “Ritrovare i sentieri
dell'Europa. Sulla via tracciata da Mario Bergamo”, con prefazione
del Generale di Corpo d’Armata Antonio Bettelli), nell'intervista
che le feci nel maggio scorso, così si espresse, alla mia domanda:
Pensi che l'europeismo immaginato
da Mario Bergamo e, prima di lui, da Mazzini, Garibaldi, Rossi,
Colorni e Spinelli, sia compatibile con l'UE e, in particolare, con i
suoi attuali dirigenti?
No,
credo che sia necessario comprendere che l’UE non risponde affatto
al sentimento dei Padri Fondatori. La UE ha un “peccato” nella
sua stessa origine che è puramente mercatale. Una realtà che non ha
una Costituzione, che dopo Maastricht s’è impantanata nel
pasticcio di Lisbona. Un grande castello di carte, pronto a implodere
da un momento all’altro, che vorrebbe far politica, senza essere un
soggetto politico. E' del resto composta da un coacervo di Nazioni,
che addirittura operano l’una in danno dell’altra. Oggi che i
tanti nodi irrisolti della Storia, altro che fine della Storia (!),
la UE dimostra tutta la propria marginalità e marginalizzazione. Il
mio però è un libro di speranza che guarda a una Unione Federale,
quell’Unione Perfetta che propugnava Mario Bergamo fin dal 1919 e
che è ancora attualissima nella possibilità di attuazione,
contenuta nel suo “La France et l’Italie Sous le Signe du
Latran”, pubblicato nel 1931 a Parigi da S.E.P.I. e tradotto in
Italia nel 1968 con il titolo “Laicismo Integrale”.
Mario Draghi, forse, dovrebbe leggersi Mario Bergamo. E così
dovrebbero fare tutti coloro i quali, alla giustizia sociale e alla
laicità del pensiero, preferiscono il dogma di un europeismo
oligarchico liberal capitalista fuori tempo massimo, sconfitto dalla
Storia, perché ha tradito la Storia stessa e l'idea stessa di
un'Europa unita, fondata sulla giustizia sociale e sulla sovranità
nazionale.
Il 23 ottobre scorso, a
Pechino, si è concluso il Plenum del XX Comitato Centrale del
Partito Comunista Cinese (PCC), presieduto dal Segretario Generale
del Comitato Centrale del PCC e Presidente della Repubblica Popolare
Cinese, Xi Jinping.
I partecipanti hanno
deliberato le raccomandazioni per la formulazione del XV Piano
Quinquennale per lo Sviluppo Economico e Sociale.
Tali raccomandazioni
hanno posto, quale priorità, la “costruzione di un sistema
industriale modernizzato e il rafforzamento delle fondamenta
dell'economia reale”, come dichiarato da Zheng Shanjie,
Presidente della Commissione Nazionale per lo Sviluppo e la Riforma.
Le raccomandazioni
deliberate, invitano il Paese a sviluppare le industrie del futuro e
accelerare i settori strategici industriali emergenti nei settori
chiave, quali le nuove fonti di energia, i nuovi materiali e il
settore aerospaziale. Oltre che a promuovere la tecnologia
quantistica, la bio-manifattura e il 6G, al fine di gettare le basi
per una nuova crescita dell'economia.
“Crediamo che dopo
altri cinque anni di impegno costante, la forza scientifica e
tecnologica della Cina compirà un altro importante passo avanti.
L'innovazione scientifica e tecnologica svolgerà un ruolo ancora più
importante nel guidare lo sviluppo di nuove forze produttive di
qualità e nel promuovere la crescita di alta qualità della Cina”,
ha affermato Yin Hejun, Ministro della Scienza e della Tecnologia
della Repubblica Popolare Cinese, come riportato da Global Times,
tabloid del PCC, che peraltro ha dato spesso spazio anche interventi
dell'importante manager e analista italiano prof. Giancarlo Elia
Valori, grande e storico amico della Cina.
Nell'ambito
della quarta sessione plenaria del Comitato Centrale del PCC, i
partecipanti hanno espresso una valutazione positiva dei risultati di
sviluppo del Paese durante il Piano Quinquennale precedente (2021 –
2025) e hanno indicato il XV Piano Quinquennale (2026 – 2030)
cruciale, al fine di raggiungere una “sostanziale
modernizzazione socialista entro il 2035”.
Gli
obiettivi fissati nell'ambito di tale Piano sono: progredire nello
sviluppo di alta qualità in tutti i settori; migliorare
l'autosufficienza e solidità scientifica e tecnologica; sviluppare
nuove riforme e progredire sotto il profilo culturale e etico
nell'ambito della società; migliorare la qualità della vita delle
persone; guidare lo sviluppo di nuove forze produttive di qualità;
accelerare la transizione verde; progredire nel rafforzare la
sicurezza nazionale.
L'obiettivo
di raggiungere una “sostanziale modernizzazione
socialista entro il 2035” è,
dunque, un nuovo tassello del Socialismo con caratteristiche cinesi
che, negli scorsi decenni, si era posto l'obiettivo – pienamente
raggiunto – di raggiungere una “società moderatamente
prospera in tutti i suoi aspetti”.
Il Plenum del Comitato Centrale, peraltro, ha sottolineato come il Paese dovrebbe garantire la
stabilità e prosperità a lungo termine di Hong Kong e Macao,
promuovendo le relazioni pacifiche e la causa della riunificazione
nazionale della Cina.
Altri obiettivi del XV
Piano Quinquennale, quelli di contrastare l'abuso dei dazi da parte
di alcuni Paesi occidentali, garantendo l'apertura e la condivisione
con tutte le parti, sviluppando una crescita economica stabile,
nonché promuovendo sempre il mutuo vantaggio, la cooperazione e la
stabilità globale.
Esponente del
mazzinianesimo novecentesco, del socialismo e del sindacalismo
rivoluzionario, già deputato socialista, Alceste De Ambris (1874 -
1934), celebre per aver dato vita, assieme al Vate Gabriele
d'Annunzio, alla libertaria Carta del Carnaro dello Stato libero di
Fiume, fu estraneo tanto alla tradizione liberale, che a quella
marxista.
Per questo
vergognosamente e volutamente dimenticato.
Esponente del primo, del
più puro, del più autentico e intransigente antifascismo, De
Ambris, nel 1930, darà alle stampe il pamphlet “Mussolini. La
leggenda e l'uomo”, ripubblicato recentemente dalla Mario Pascale
Editore.
Un saggio unico, per la
minuziosa descrizione, quasi in stile giornalistico, dei voltafaccia,
dei bluff, dell'immenso opportunismo e dell'immensa mediocrità di
Benito Mussolini e della sua per nulla originale e assai confusa
ideologia, che pretendeva di prendere a prestito idee socialiste,
d'annunziane, mazziniane, pur svuotandole di significato e ponendo il
tutto al servizio del grande capitale industriale e borghese.
De Ambris, Mussolini, lo
conobbe bene, essendosi entrambi formati sul piano delle idee
nell'ambito del socialismo e del sindacalismo rivoluzionario.
Con differenze
fondamentali, ad ogni modo.
De Ambris, intransigente,
lontano da ogni credenza nel liberalismo, nel parlamentarismo e nel
riformismo borghese, ma anche nel bolscevismo burocratico e
autoritario, sarà un promotore dell'elevazione morale e materiale
dei lavoratori e delle classi meno abbienti.
Le quali avrebbero
dovuto auto-governarsi e auto-gestirsi, attraverso un sistema
democratico, dal basso e anti-autoritario, sulla base degli
insegnamenti mazziniani e socialisti originari.
Il Mussolini, invece,
come ce lo descrive De Ambris, prendendo anche a prestito numerose
testimonianze di chi lo conobbe da vicino, come la socialista
Angelica Balabanoff, fu, fin da giovanissimo, un opportunista, un
perdigiorno privo di coraggio, idee e nerbo.
E, infatti, nel suo
“Mussolini. La leggenda e l'uomo”, ce lo descrive come un
demagogo parolaio, che sfrutta i suoi stessi compagni di partito
(facendosi compiangere e dicendo di avere il padre alcolizzato), che
usa il socialismo più per farsi un nome che per vera fede politica.
Che parte neutralista e prosegue ultra-interventista, nella Prima
Guerra Mondiale. Ma che si guarderà sempre bene dal partecipare in
prima persona, sia alle battaglie (rimarrà 38 giorni in trincea,
senza mai combattere); sia durante gli scioperi operai; sia in quella
Marcia su Roma, alla quale Mussolini, fisicamente, non parteciperà
affatto.
Un Mussolini che
utilizzerà qualsiasi stratagemma per farsi finanziare, dal governo
francese e dalla grande industria italiana, “Il Popolo d'Italia”,
il suo giornale personale e che si guarderà bene dall'appoggiare e
sostenere l'impresa d'annunziana di Fiume, per non inimicarsi il
giolittismo.
Anzi, Mussolini, il suo
giornale e la sua confusa ideologia, il fascismo, diverranno utili
alla classe dirigente liberal-giolittiana dell'epoca per combattere
il nascente bolscevismo e ogni anelito libertario, fosse
d'annunziano, anarchico, socialista o repubblicano mazziniano.
Mussolini divenne, una
volta traditi gli ideali socialisti, dunque, l'uomo di riferimento
della borghesia e dello Stato liberale ed ebbe quindi gioco facile,
attraverso le sue violente squadracce, nel farsi strada verso l'unica
cosa che gli interessava davvero: ottenere il potere.
Un potere che facilmente
gli sarà ceduto, dalla decadente classe politica liberale di allora
e da un Re opportunista e pavido, come sempre fu Casa Savoia e come
ricorda il De Ambris.
Fu dunque facile, per i
fascisti, insinuarsi nello Stato, nella sua burocrazia, nella sua
polizia e nelle leve del comando, distruggendo tutto quanto il
Risorgimento italiano aveva costruito.
Purtuttavia, come ci
ricorda Alceste De Ambris, Mussolini, dopo essersi appropriato della
retorica socialista, svuotandola completamente di significato e
contenuto, si appropriò anche di quella risorgimentale, giungendo
persino a far aderire al fascismo Ricciotti e Ezio Garibaldi,
insozzando, come sottolinea il De Ambris, persino la gloriosa
tradizione garibaldina.
Alceste De Ambris,
infatti, conclude il suo saggio, sottolineando come non è con il
tradimento di certi garibaldini, che termina l'ideale garibaldino di
emancipazione sociale e civile ed in proposito scrive: “Quella
camicia rossa che i nipoti indegni hanno gettato nel fango fetido, la
raccoglierà il popolo nostro, lavandola e ritingendola col suo
sangue più generoso, per innalzarla ancora come una bandiera di
riscossa”.
Ed aggiunge: “E se
il giorno sperato verrà, vendicheremo il sacrilegio affogando
l'Insozzatore nello sterco. Poiché la ghigliottina, il plotone
d'esecuzione, la forca stessa dei ladri, sarebbero troppo insigne
onore per lui”.
“Mussolini.
La leggenda e l'uomo” è un documento prezioso, per troppo tempo
rimasto dimenticato, che non solo getta luce su Mussolini e il
fascismo, che non fu mai un'ideologia, ma un coacervo di mediocrità,
incoerenza, opportunismo, menzogna, pavidità (aspetti che possiamo
osservare bene anche nei suoi eredi storici di oggi), ma riporta in
luce Alceste De Ambris, politico e intellettuale socialista,
sindacalista rivoluzionario, mazziniano e garibaldino.
La
cui tradizione rimane, ancora oggi, per quanto non riconoscibile in
nessuno dei partiti italiani della Seconda Repubblica (nella Prima
Repubblica essa fu presente unicamente nella corrente di sinistra del
Partito Repubblicano Italiano, fino al 1957 e in parte in alcuni
esponenti del PSI e del PSDI), un faro di luce per coloro i quali
avranno il coraggio di approfondirla e portarla avanti.
I tentativi di
destabilizzazione, da parte del governo USA, dei Paesi sovrani e
socialisti, in America Latina, quali quello del Venezuela e della
Colombia, sembrano non avere fine.
Alle ingiuste e
pretestuose accuse di Trump rivolte al Presidente socialista
colombiano, Gustavo Petro, di essere “leader del narcotraffico”,
quest'ultimo ha risposto con fermezza.
Petro gli ha chiesto,
innanzitutto, di rendere conto della morte di Alejandro Carranza,
pescatore di Santa Marta, avvenuta attraverso un attacco USA alla sua
imbarcazione.
“La barca del
pescatore di Santa Marta non apparteneva all'ELN (Esercito
di Liberazione Nazionale); apparteneva a una famiglia umile
che amava il mare, ed era lì che si procurava il cibo”.
Rivolgendosi a Trump, il
Presidente Petro ha insistito, chiedendogli: “Cosa dici a
quella famiglia? Spiegami perché hai contribuito ad assassinare un
umile pescatore di Santa Marta, la terra dove morì Bolívar e che
dicono sia il cuore del mondo”. “Cosa
dici alla famiglia del pescatore Alejandro Carranza
? Era un umile essere umano”.
Il Presidente Gustavo
Petro ha proseguito, anche con un toccante post su Facebook,
affermando: “Signor Trump, la Colombia non è mai stata scortese
con gli Stati Uniti; al contrario, ne ha amato profondamente la
cultura. Ma lei è scortese e ignorante nei confronti della
Colombia. Legga, come ha fatto il suo incaricato d'affari in
Colombia, “Cent'anni di solitudine”, e le assicuro che imparerà
qualcosa dalla solitudine. Io non faccio affari, come lei. Sono un
socialista. Credo negli aiuti e nel bene comune, e nei beni comuni
dell'umanità, il più grande di tutti: la vita, messa in pericolo
dal suo petrolio. Se non sono un uomo d'affari, e tanto meno un
narcotrafficante, non c'è avidità nel mio cuore. Non potrei mai
relazionarmi con l'avidità. Un mafioso è un essere umano che
incarna il meglio del capitalismo: l'avidità. Io sono l'opposto, un
amante della vita e quindi un guerriero millenario della vita.
L'avidità ci sfugge, perché la vita è più potente”.
Trump, accusando senza
alcuna prova la Colombia di narcotraffico, come sta facendo con il
Venezuela, ove addirittura sta mobilitando la CIA, aveva affermato
che “La Colombia promuove la coltivazione massiccia di droga e
Petro non fa nulla per fermarla”, minacciando di sospendere i
pagamenti e i sussidi che gli USA erogano alla Colombia.
Il Presidente Petro, su
Facebook, ha a sua volta risposto, con un post che merita di essere
integralmente pubblicato: “Le guerre che la Colombia sta vivendo
da cinque decenni, prima nelle aree urbane fino al 1993 e poi nelle
aree rurali, sono dovute al consumo di cocaina negli Stati Uniti.
Sebbene i governi statunitensi abbiano contribuito alla pace in
Colombia, negli ultimi anni sono stati scarsi e inesistenti. Nella
lotta contro i produttori e gli spacciatori di cocaina è emersa una
sorta di divisione del lavoro: la Colombia fornisce i soldi e le
morti nella lotta; gli Stati Uniti forniscono il consumo. Il
consumo negli Stati Uniti e il crescente consumo in Europa sono
responsabili di 300.000 omicidi in Colombia e di un milione di morti
in America Latina. Durante la mia amministrazione, quando furono
compiuti i maggiori sforzi contro i narcotrafficanti, bloccando
l'espansione delle coltivazioni di foglie di coca, queste aumentarono
solo del 3% entro il 2024. Metà delle coltivazioni, negli ultimi tre
anni, è stata abbandonata nella giungla, come sottolinea il rapporto
delle Nazioni Unite. Abbiamo sequestrato, come mai prima nella
Storia, più di 2.800 tonnellate di cocaina, con l'aiuto delle
agenzie di intelligence europee e nordamericane, alle quali ho
chiesto la massima collaborazione senza violare le leggi
nazionali. Questo elimina l'unico vantaggio che la Colombia aveva
ottenuto in questa lotta impari: i vantaggi tariffari, che sono
diventati nulli durante l'amministrazione Trump e ora sono ancora più
minacciati. Questo distrugge qualsiasi possibile accordo sulla lotta
contro i narcotrafficanti, le cui risorse finanziarie in tutto il
mondo non vengono sfruttate. Propongo a Trump l'opposto: rimuovere
i dazi sulla produzione agricola e agroindustriale colombiana per
rafforzare la produzione agricola legale; investire nella riforma
agraria affinché gli agricoltori abbiano accesso a terreni fertili
vicino alle città e non adottino la giungla come mezzo di
sopravvivenza; stimolare le opportunità commerciali negli Stati
Uniti per acquistare, attraverso contratti a lungo termine, prodotti
agricoli provenienti da zone di sostituzione delle colture in
Colombia; legalizzare l'esportazione di cannabis come qualsiasi altro
bene, data la sua esclusione dalla lista delle sostanze pericolose
delle Nazioni Unite; rafforzare la politica statunitense di
prevenzione del consumo; studiare scientificamente se il
proibizionismo sia necessario o, piuttosto, promuovere un consumo
responsabile e regolamentato dallo Stato; e creare un trattato più
efficace per perseguire i capitali e i beni dei trafficanti di droga
in tutto il mondo.
Solidarietà al
Presidente Petro sono giunte dall'ex Presidente socialista della
Bolivia, Evo Morales, il quale, su X, ha scritto: “Inviamo la
nostra solidarietà al fratello Presidente Gustavo Petro di fronte
agli attacchi e alle minacce del Presidente degli Stati Uniti, Donald
Trump”, aggiungendo:
“Gustavo Petro è una delle voci meritevoli che chiedono la pace.
Le minacce contro la nostra patria sorella, la Colombia, sono minacce
contro l'intera Patria Grande”.
E un
messaggio di sostegno è giunto anche dall'ex Presidente socialista
dell'Ecuador, Rafael Correa, già ingiustamente accusato di
corruzione nel 2020 e rifugiato politico in Belgio: “Il fatto
che l'uomo più potente del pianeta sia un pagliaccio irresponsabile
dovrebbe preoccupare tutta l'umanità. Forza, Presidente Petro!
Forza, Colombia! Forza, America Latina!”.
A pochi giorni dalle
elezioni parlamentari, che si terranno il 26 ottobre prossimo, la
piazza peronista argentina si mobilita per celebrare l'80esimo
anniversario del “Giorno della Lealtà”, festeggiato in Argentina
ogni 17 ottobre.
Tale anniversario è
particolarmente importante, perché ricorda la grande mobilitazione
sindacale e operaia che, il 17 ottobre 1945, ottenne la liberazione
dell'allora colonnello Juan Domingo Peron, il quale aveva guidato,
due anni prima, un movimento sociale comprendente socialisti e sindacalisti rivoluzionari, promuovendo i diritti dei lavoratori
attraverso le sue funzioni di Ministro del Lavoro e della Previdenza
Sociale.
Il suo arresto fu
ordinato dai suoi oppositori, sostenuto anche dall'immancabile
ambasciatore-destabilizzatore USA di turno, ma la mobilitazione
popolare portò al suo rilascio.
Il 17 ottobre è
considerata, in Argentina, la data di fondazione del Peronismo o
Giustizialismo, corrente del socialismo che, ancora oggi, porta
avanti giustizia sociale, indipendenza economica, sovranità
nazionale e diritti civili e che condusse Peron al governo, attraverso
le elezioni presidenziali del febbraio 1946, sostenuto dal Partito
Laburista.
Ancora oggi, i
sostenitori di Juan Domingo e Evita Peron, la sua indimenticata
consorte, scendono in piazza, non solo per celebrare il Peronismo, ma
anche per chiedere a gran voce la liberazione dell'ex Presidentessa
peronista Cristina Fernandez de Kirchner, agli arresti domiciliari
per un'ingiusta condanna per corruzione, che le impedisce di
candidarsi alle elezioni parlamentari.
La marcia dei movimenti
sociali e sindacali è culminata difronte alla residenza dell'ex
Presidentessa, a Buenos Aires, e, come accade da mesi – nel corso
delle varie mobilitazioni popolari - ha denunciato le politiche di
persecuzione politico-giudiziaria contro l'esponente peronista.
Gli
organizzatori, puntando il dito contro l'attuale regime liberal
capitalista del trumpiano e filo statunitense Javier Milei, hanno
affermato che “ottant’anni
dopo,ilperonismo
riunisce il popolo argentino
davanti a una
realtà che riproduce
vecchi
attacchi contro
i diritticonquistati:
tagli al
lavoro e alle
pensioni; precarizzazione dell’occupazione; smantellamento dello
Stato;
consegna delle risorse
nazionali e
scarsa considerazioneper la
salute e
l’istruzione
pubblica”.
Il
Peronismo sta tornando in Argentina. E, allo stesso modo, il
Socialismo non si piegherà, nel resto dell'America Latina, ai diktat
dell'ipocrita e per nulla democratico regime suprematista bianco a
Stelle e Strisce che, nonostante i numerosi e storici tentativi di
destabilizzazione, golpe e embarghi vari (in Venezuela, a Cuba, in
Nicaragua, ma l'elenco è lunghissimo), è sempre stato respinto.
E
se non lo sarà oggi, lo sarà domani.
Perché
il riscatto dei popoli oppressi è una realtà inarrestabile, che
nessun regime, men che meno quello fondato sul danaro e su una finta
idea di libertà, potrà fermare.
Era il 15 ottobre 1987, quando il Presidente del
Burkina Faso – Thomas Sankara – fu ucciso, nell'ambito del colpo
di Stato organizzato dal suo ex compagno d'armi Blaise Campaoré, con
l'appoggio degli USA, della Francia e dei militari liberiani.
Sankara fu e rimane un
simbolo per i popoli del Terzo Mondo africani. Un simbolo panafricano
di riscatto e emancipazione.
Burkina Faso, significa,
letteralmente, “paese degli uomini integri”. Così come integro
fu sempre Sankara, salito al potere a soli 35 anni, attraverso una
rivoluzione senza spargimento di sangue, esattamente come avvenne in
Libia, con Mu'Ammar Gheddafi.
Sankara nacque il 21
dicembre 1949 da una famiglia povera burkinabé. Il suo sogno, sin da
bambino, fu che il suo popolo potesse affrancarsi dal neocolonialismo
e che tutti potessero vivere in pace, con due pasti al giorno.
Per potersi mantenere
entrò nell'esercito partecipando ad un concorso per accedere alla
Scuola militare Pryatanée di Kadiogo, superando il concorso nel
1966.
Nel 1978 conobbe colui il
quale, tempo dopo, l'avrebbe assassinato, ovvero Blaise Campaoré e
con lui costituì il Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti al fine
di rovesciare il regime corrotto dell'Alto Volta.
Nel novembre 1980, senza
alcun spargimento di sangue, prese il potere il colonnello Sayé
Zerbo e Sankara, vista l'alta popolarità di cui godeva
nell'esercito, fu nominato Segretario di Stato per l'Informazione.
Purtuttavia, in aperto contrasto con il governo che egli scoprì
essere corrotto tanto quanto i precedenti, si dimise dall'incarico
nell'aprile 1982 e sarà arrestato assieme agli altri componenti del
Raggruppamento degli Ufficiali Comunisti.
Un successivo colpo di
Stato porterà al potere Jean-Baptiste Ouédraogo che, oltre a
liberare Sankara ed i suoi compagni, lo nominerà Primo Ministro.
Da quel momento Sankara
inizierà ad applicare sanzioni contro i funzionari pubblici
fannulloni, eliminando alcuni vantaggi dei dipendenti pubblici ed
iniziando a viaggiare per i Paesi del Terzo Mondo intessendo sempre
più fitte relazioni, in particolare con la Libia di Mu'Ammar
Gheddafi.
Tornato in patria,
Sankara trovò la sua abitazione circondata da carri armati condotti
da uomini al soldo del governo francese, il quale temeva l'impulso
rivoluzionario del governo da lui presieduto. Egli fu così arrestato
e detenuto presso un campo militare.
Grazie ad una
sollevazione popolare lui ed i suoi compagni saranno liberati il 30
maggio 1983 ed inizieranno a progettare il colpo di Stato dell'agosto
successivo, che lo porterà finalmente alla Presidenza della
Repubblica con un programma ambiziosissimo, che riuscirà purtroppo
ad attuare solo in parte a causa del suo assassinio, nell'ottobre
1987.
Un programma che
consistette in: una massiccia opera di vaccinazione che permise la
riduzione di mortalità infantile in Burkina Faso; in una massiccia
opera di rimboschimento al fine di far rivivere l'arido Sahel; nella
riforma agraria che permise di ridistribuire le terre ai contadini;
nella politica di soppressione delle imposte agricole; nelle
importantissime politiche di liberazione femminile che proibirono la
pratica barbarica dell'infibulazione, nell'abolizione della
poligamia, nella partecipazione delle donne alla vita politica del
Paese attraverso l'istituzione dell'Unione delle Donne del Burkina,
nell'istituzione della giornata dei mariti al mercato; in un
programma di riduzione delle spese e del processo di autarchia
ribattezzato da Sankara “produciamo quello che consumiamo”, al
fine di abolire progressivamente la dipendenza dalle importazioni con
l'estero; la costruzione di apposite dighe, pozzi e bacini idrici che
garantissero a tutti l'accesso all'acqua e la garanzia di due pasti
al giorno per tutti i burkinabé; la costruzione di un campo sportivo
per ogni villaggio al fine di garantire a tutti il diritto
all'attività fisica e ricreativa; la lotta alla corruzione pubblica
e la richiesta di Sankara ai Potenti della Terra di cancellare il
debito ai Paesi del Terzo Mondo, in quanto frutto del colonialismo e
del neocolonialismo e dunque all'origine del sottosviluppo di tali
Paesi; la proposta di disarmo progressivo di tutti i Paesi africani
in modo che questi non combattano più fra loro, ma lottino per
l'unità e l'emancipazione dei popoli africani; lo sforzo di far
partecipare tutti alla vita pubblica del Paese, attraverso appositi
comitati rivoluzionari e una radio attraverso la quale chiunque
potesse fare proposte o criticare l'operato del governo.
Programma ambizioso e in
parte realizzato sino a quell'ottobre 1987 nel quale sarà ucciso -
con un colpo di revolver - dal suo amico di lotte, il quale prenderà
così il potere e annullerà molte delle riforme portate avanti da
Sankara, facendo peraltro tornare il Burkina Faso preda della
corruzione e dei potentati economici e politici stranieri.
Un sogno, quello della
Rivoluzione burkinabé, dunque tragicamente interrotto. Un sogno che
fu sostenuto peraltro anche dal Partito Radicale di Marco Pannella
che lanciò in quegli anni una campagna contro lo sterminio per fame
nei Paesi del Terzo Mondo e che porterà lo stesso Presidente Thomas
Sakara ad iscriversi al loro partito.
La vita e l'esempio
di
Sankara, portato avanti dall'attuale Presidente del
Burkina Faso, Ibrahim Traoré, che combatte tanto contro l'imperialismo
neocoloniale francese, che contro il terrorismo islamista, ci spiegano,
per moltissimi versi, le vere cause del fenomeno
migratorio di oggi, che è frutto del capitalismo, del colonialismo e
del neocolonialismo dei governi dei Paesi ricchi europei e
statunitensi. I quali continuano a invadere e destabilizzare Paesi
sovrani, a sanzionarli, a vendere loro armi. E obbligano i Paesi
poveri ad indebitarsi, attraverso le criminali politiche della Banca
Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, già ampiamente
denunciate da Sankara stesso.
Sankara rimane un simbolo
per i popoli liberi e sue lotte, che sono ancora oggi le lotte dei
panafricani, meritano rispetto e concreta attuazione. Affinché il
suo sacrificio eroico non sia stato vano.
Oggi, gli italiani, lo
dimostrano anche le recenti elezioni amministrative, non vanno più a
votare, per la gran parte.
Non si riconoscono,
infatti, in contenitori pressoché uguali e sempre più uguali, con
il passare degli anni.
Contenutori volti a
distruggere i diritti dei lavoratori; lo stato sociale; la sanità
pubblica; a non fare nulla per i diritti degli anziani; delle donne e
dei bambini; a non far nulla contro le baby gang e mantenere l'ordine
pubblico.
Contenitori lontani tanto
a livello nazionale, quanto a livello locale, dalle necessità dei cittadini e della comunità.
Contenitori che
preferiscono piegarsi ai desiderata, sempre più sconsiderati e
guerrafondai, di Bruxelles e Washington. Che fanno di tutto per
distruggere un Occidente alla deriva.
La storia che racconterò
e che ho già raccontato in altri articoli e video, riassumendola, è
quella di un politico onesto, di un servitore della comunità,
attraverso lo Stato democratico italiano di una Repubblica che non
esiste più.
Quella Prima Repubblica,
nella quale, governavano partiti di autentico Centro-Sinistra. E non
gli eredi degli opposti estremismi, approdati al liberal capitalismo
assoluto e al fondamentalismo senza costrutto, che si dicono
“riformisti” senza esserlo mai stati.
E' la storia di un
socialista democratico, raccontata in primis da Mattia Granata, nel
suo “Roberto Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, edito
da Rubbettino, con il contributo del Centro per la cultura d'impresa.
Di Roberto Tremelloni
(1900 – 1987), che ricoprì i Ministeri dell'Industria e del
Commercio; del Tesoro, delle Finanze e della Difesa, Enrico Mattei
ebbe a scrivere, a proposito del suo modo di fare politica:
“Socialista genuino, uomo di cultura moderna, l'On. Tremelloni
ha indicato, senza demagogia, quello che un governo socialista deve
fare (…), un dirigista, certo, ma un dirigista serio, non un
facilone né un demagogo”.
Tremelloni nacque a
Milano, in una famiglia povera e questo ha formato profondamente il
suo carattere e il suo modo retto di fare politica.
Come riporta Granata, nel
suo saggio, Tremelloni scrisse di sé: “Mi sembra molto
importante, nel lungo andare della mia vita, il fatto di essere nato
povero. Ciò ha giovato alla formazione del mio carattere. Io
benedico spesso di essere stato allevato in un ambiente di difficoltà
e ristrettezze materiali. Benedico questa scuola perché le
difficoltà e le ristrettezze non mi fanno più paura. Perché lo
sforzo per superarle diventa abitudine”.
Economista serio, fuori
da ogni ideologismo e dogmatismo e sempre dalla parte della
collettività, Tremelloni riteneva che fosse “Il proletariato
che può e deve alzare la bandiera dello sviluppo economico
nell'interesse di tutta la collettività”.
La sua politica fu sempre
in contrasto con quella dei conservatori di ogni colore “anche
se sono mascherati da etichette progressiste dei più vari movimenti
di destra e sinistra”, affermava.
Da adolescente aderì al
Partito Repubblicano Italiano di mazziniana e risorgimentale memoria,
così come Pietro Nenni. Partito della trasparenza e della
rettitudine per eccellenza, oltre che collocato all'estrema sinistra
democratica e laica.
Tremelloni si definiva,
già da allora, un risorgimentale fabiano, un umanitarista socialista
mazziniano e patriottico e tali idee si rafforzarono anche grazie
all'amicizia con il liberalsocialista Carlo Rosselli e il padre del
Socialismo italiano, Filippo Turati.
Idee che guardavano a un
libero mercato regolato a beneficio della collettività e non
dell'egoismo privato. Oltre ogni visione classista di matrice
marxista-leninista e contro ogni autarchismo di matrice fascista, che
Tremelloni avversò con tutto sé stesso, in particolare quando fu
chiamato ai suoi primi incarichi di governo, nella ricostruzione
dell'Italia, nel dopoguerra.
Un socialismo
municipalista e gradualista, il suo, che lo porterà a sostenere,
così come il liberalsocialista e amico Ernesto Rossi, la lotta ai
monopoli e la promozione della nazionalizzazione dei settori chiave
dell'economia, a partire dal settore energetico.
Un socialismo che lo farà
approdare, nel 1922, al Partito Socialista Unitario di Turati e
Treves e, nel dopoguerra, al Partito Socialista di Unità Proletaria
di Nenni e al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani di Giuseppe
Saragat, successivamente Partito Socialista Unitario e, infine,
Partito Socialista Democratico Italiano.
Si occupò, in gioventù,
di giornalismo, sia sportivo che di cronaca e, nel 1919 fondò, con
il fratello Attilio, la Casa Editrice Aracne e diresse la rivista
della Confederazione Generale Del Lavoro, “Battaglie sindacali”,
fino alla soppressione, durante il fascismo.
Nel 1926 fondò,
peraltro, con Rosselli e Pietro Nenni, la rivista socialista “Quarto
Stato”, anch'essa presto soppressa dal regime.
Ma la sua vera passione
sarà sempre l'economia. Laureatosi nel 1924 in Scienze economiche,
nel 1930, iniziò ad insegnare Economia politica presso l'Università
di Ginevra.
Furono quelli gli anni in
cui si dedicò maggiormente agli studi economici e meno all'impegno
politico, purtuttavia rimase sempre un antifascista della prima ora,
non mancando mai di rivolgere critiche alla politica economica del
governo mussoliniano, come fa presente il saggio di Granata.
Egli fu, peraltro, fra i
fondatori del giornale economico “Il Sole 24 Ore”.
Nel 1931, a Milano, fondò
il GAR, ovvero il Gruppo Amici della Razionalizzazione, ovvero una
sorta di centro studi economico, fortemente critico nei confronti
dell'economia autarchica del regime.
Riuscì, ad ogni modo, a
sfuggire alla condanna al confino, grazie al supporto della rete
antifascista.
Nel dopoguerra,
Tremelloni tornerà ad essere politicamente attivo, sebbene – come
ricorda Mattia Granata - considerasse gran parte dei programmi dei
partiti italiani piuttosto vaghi, nebulosi, poco concreti. Alla
ricerca più del consenso o di non perdere consensi, piuttosto che
fondati sulla ricostruzione del Paese, in favore della comunità.
Già allora egli mostrava
il suo carattere pragmatico e non ideologico e, con questo spirito,
contribuirà, nel 1947, a dare vita, con Saragat, al Partito
Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).
Partito di sinistra
laica, socialista democratico e oltre i blocchi contrapposti DC –
PCI.
All'indomani della
Liberazione, fu incaricato di ricoprire il ruolo di Vicepresidente
del Consiglio Industriale per l’Alta Italia, ove si occupò di
gestire e riattivare le strutture dell'economia produttiva.
E' in questo ruolo che
ebbe modo di applicare la sua visione economica, basata sulla
razionalizzazione della produzione, contro ogni forma di parassitismo
e di spreco di danaro e energie pubbliche, oltre che contro ogni
forma di protezionismo economico.
Ampliamento dei mercati e
produzione economica di massa di beni utili e non voluttuari, erano
le sue linee guida, per garantire una diffusa prosperità.
Il tutto, secondo
Tremelloni, era possibile attraverso un “ordinato e funzionante”
intervento pubblico nell'economia del Paese.
In questo senso, fu un
sostenitore della nazionalizzazione di ferrovie, compagnie
telefoniche e elettriche; dell'abolizione di ogni forma di monopolio
e della promozione della meritocrazia in ambito occupazionale.
La politica di
Tremelloni, in ambito economico, che era il cuore del programma del
socialismo democratico dell'epoca, rifuggiva, dunque, da ogni forma
di collettivismo classista e da ogni forma di liberalismo economico,
come ottimamente sottolineato dall'autore del saggio biografico.
E questa sarà la
politica che egli sempre porterà avanti, anche nei successivi
incarichi di governo, all'Industria e commercio (1947), al Tesoro
(1962), alle Finanze (1963) e alla Difesa (1966).
Una politica improntata
alla buona amministrazione, all'evitare sperperi e sprechi, al
risanamento dei conti pubblici ed alla razionalizzazione della spesa,
ma all'insegna dello spendere meno, ma meglio, in particolare in
settori importantissimi quali sanità e istruzione, sui quali
Tremelloni intese investire maggiormente.
Inutile dire che si
scontrò moltissimo con i politici della sua epoca, in tal senso.
Fu, come moltissimi
esponenti del suo partito, un sostenitore dell'adesione dell'Italia
al Patto Atlantico, ma allo stesso tempo fu, come tutti i socialisti
democratici, un sostenitore della pace, del disarmo e del dialogo e
della cooperazione internazionale con tutti i Paesi del mondo, oltre
che dell'autonomia decisionale dell'Italia.
Fu, da Ministro delle
Finanze, un sostenitore non solo della progressività delle imposte e
dell'abolizione dell'esenzione fiscale a deputati e senatori, ma
anche della lotta all'evasione fiscale e ciò gli attirò numerose
critiche, da destra e sinistra.
La sua linea rigorosa era
comprensibilmente giustificata proprio dal fatto che, grazie alle
imposte progressive, non solo le classi meno abbienti avrebbero
pagato meno, ma i servizi pubblici potevano essere resi più
efficienti, se tutti avessero pagato ciò che a ciascuno competeva.
Come fa presente Mattia
Granata nel suo saggio, Tremelloni mirava a moralizzare la vita
pubblica e politica e spesso si trovò a scontrarsi con una dura
realtà, fatta di malcostume diffuso, che spesso gli causò non poche
delusioni e persino problemi di salute.
Egli detestava
l'inefficienza, il malaffare, il trasformismo, la superficialità, la
degenerazione partitocratica.
Tutte cose che
riscontrerà anche da Ministro della Difesa, incarico che egli mai
avrebbe voluto assumere.
Pacifista della prima
ora, anche in quel caso, con grandi difficoltà, cercò di
razionalizzare la spesa militare, pur non riuscendovi e trovandosi
difronte a una realtà clientelare diffusa.
Tentò di riformare il
SIFAR, trasformandolo in SID e tentando di correggere quelle
deviazioni dei servizi segreti che stavano portando il Paese a subire
un colpo di stato di estrema destra, durante la crisi del governo
Moro-Nenni, nel 1964.
All'epoca, Tremelloni, fu
lasciato solo persino da molti suoi compagni di partito, essendosi
ormai inimicato gran parte dei poteri forti che si stavano
sostituendo allo Stato.
Nel saggio “Roberto
Tremelloni, riformismo e sviluppo economico”, Mattia Granata
riporta alcune significative annotazioni di Tremelloni, relative a
quel periodo: “Mi trovai intorno una cerchia abbastanza ampia di
nemici giurati. Non solo i colpiti (evidentemente
quelli del Sifar), ma anche i loro sovvenzionati (…)
legati da vincoli di complicità e omertà, mi attaccarono e fecero
attaccare con insolita durezza e con la diffusione delle più varie
calunnie contro di me attraverso la mafia solidale degli informatori
Sifar, che i servizi segreti avevano in ogni partito, in ogni agenzia
giornalistica, in ogni centro di informazione o centro politico. (…).
“Il Sifar si vendicava rabbiosamente (…) tutto lo Stato nello
Stato si ribellava contro chi aveva osato mettersi contro di lui”.
Da
allora, inizierà il declino politico di Tremelloni, sempre più
isolato anche all'interno di un un PSDI che stava perdendo gran parte
del suo glorioso passato socialista ed era in inevitabile calo di
consensi da parte dell'opinione pubblica.
Così
scriveva Tremelloni, all'indomani dell'esperienza al Ministero della
Difesa: “Il partito non mi difese dagli attacchi e dalle
calunnie, non fece quadrato attorno a me nella difficile e
spericolata traversia che mi aveva attirato gli odii di tutti gli
amici dei potentissimi servizi segreti (…) anche nei partiti di
sinistra”.
In un
PSDI guidato da Mario Tanassi, le personalità di alto profilo come
Tremelloni erano sempre più tenute ai margini (la stessa pasionaria
del socialismo, Angelica Balabanoff, negli anni, rimase sempre più
delusa dai vertici del partito dei socialisti democratici e non mancò
di sottolinearlo, nelle sue memorie).
Tremelloni
non venne più considerato in seno al PSDI e gli veniva preferita,
nel 1968, il sostegno – nel suo stesso collegio milanese - alla
candidatura di Eugenio Scalfari alle elezioni politiche e, solamente
grazie al ripescaggio dei resti, e all'interessamento di Pietro
Nenni, sarà rieletto, come fa presente il saggio di Granata.
Tremelloni, ad ogni modo,
non smise mai di scrivere, studiare e battersi contro il fenomeno
dell'inflazione, sottovalutatissimo dalla gran parte dei politici
dell'epoca. E ciò di pari passo con la denuncia tremelloniana di un
aumento degli sprechi nel settore pubblico.
Aspetti, entrambi,
peraltro, che porteranno alla crisi della Prima Repubblica, alcuni
decenni dopo e sui quali soffieranno sia gli opposti estremismi, che
i poteri forti internazionali e un'opinione pubblica manipolata dal
sistema mediatico. Portando, dunque, al crollo dei partiti
democratici di governo e alla fine dell'Italia per come l'avevamo
conosciuta.
L'ultimo atto politico di
Tremelloni fu la partecipazione al convegno milanese del PSDI “Una
politica contro l'inflazione: per lo sviluppo nella stabilità”,
del 1973 (degli atti di tale convegno, che conservo nella mia
biblioteca, parlerò in un successivo articolo, fra qualche tempo).
Dopo di allora, come
ricorda l'ottimo Granata, Tremelloni si allontanò dalla vita
pubblica. Continuò a vivere una vita molto frugale (cibandosi, come
sempre, di riso in bianco, una mela e acqua naturale) e a vivere
un'esistenza molto ritirata, fra i suoi libri, i suoi studi, la
compagnia della moglie Emma e della figlia Laura.
Molto lo aveva deluso la
politica del tempo, che aveva accantonato una personalità di
altissimo livello, che aveva dato molto al Paese e veniva ripagato
con l'oblio e l'isolamento. Specialmente da coloro i quali avrebbero
dovuto tenerlo in palmo di mano.
Come, del resto, accadde
nel Risorgimento all'Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi (che si
ritirò a Caprera, molto deluso, dimettendosi da deputato) e anche al
grande leader e partigiano Repubblicano Randolfo Pacciardi, altro
importante Ministro degli Anni d'oro dell'Italia del dopoguerra e che
da tempo denunciava la degenerazione della partitocrazia italiana,
sempre meno al servizio alla comunità. Ma che il PRI dell'epoca mise
in un canto.
Dei migliori, del resto,
pensiamo al Ministro socialista della Sanità, Luigi Mariotti, che
fece chiudere i manicomi e si adoperò molto per il welfare, era
meglio scordarsi, per lasciare spazio alla “mafia dei
professionisti di partito”, come la chiamò lo stesso
Tremelloni.
Se vogliamo comprendere
le ragioni del disastro politico di oggi, italiano, Europeo e
Occidentale, della totale irresponsabilità e perdita di qualità del
personale politico degli ultimi trent'anni, non possiamo non
ragionare guardando al nostro passato.
E non possiamo non
onorare non solo la memoria di leader politici come Roberto
Tremelloni, ma anche apprenderne gli insegnamenti, i percorsi, la
lungimiranza e intelligenza.
Sono fra coloro i quali,
pur socialista fin da ragazzino, non credono assolutamente a una
rinascita del socialismo in Italia e Europa (e sicuramente non
considero socialisti i partitini che si dicono, oggi, tali). E ne ho
spiegato le ragioni, più e più volte. Molte di queste le ravvisò
già Tremelloni. Molte di queste le ravvisò comunque anche Bettino
Craxi, il cui PSI (l'ultimo dei partiti socialisti italiani, esistito
fino al 1992) raccolse gran parte dell'eredità socialista
democratica, ormai allo sbando.
Ciò che è possibile e
necessario fare è studiare, approfondire, ricercare, agire in modo
retto, austero, senza pregiudizi, senza tornaconti personali. Elevare
ed elevarsi oltre una massa e una politica resa incolta e arida.
“Roberto Tremelloni,
riformismo e sviluppo economico”, di Mattia Granata, scritto
benissimo e altrettanto ottimamente documentato, è, in questo senso,
un saggio preziosissimo.
Un documento raro,
fondamentale, non solo per gli storici, ma anche e soprattutto per le
nuove generazioni, siano esse formate da economisti, studiosi,
militanti politici, socialisti democratici (se ancora ne esistono,
specie fuori da partiti ormai senza alcun valore e fuori da elezioni
ormai totalmente inutili), giovani, meno giovani e quanti vorranno
recuperare il pensiero e l'azione di un grande uomo quale fu Roberto
Tremelloni.