lunedì 23 giugno 2025

Uccelli di Rovo: i rischi di un governo fantoccio. Articolo di Roberto Vuilleumier

 

La frustrazione di fronte alla natura oppressiva della Repubblica Islamica d'Iran è tanto comprensibile quanto legittima. Tuttavia, per analizzare la crisi attuale e le sue possibili evoluzioni, è indispensabile non cadere in una visione astorica. L'ostilità iraniana verso l'interferenza esterna, e in particolare quella statunitense, non nasce dal nulla, ma affonda le sue radici in una memoria storica precisa e dolorosa che oggi rischia di essere pericolosamente ignorata.
È impossibile comprendere la psiche nazionale iraniana senza tornare al colpo di stato del 1953 (Operazione Ajax). In quell'anno, la CIA e l'MI6 britannico orchestrarono il rovesciamento del primo ministro Mohammad Mossadegh, democraticamente eletto, la cui unica "colpa" era stata quella di nazionalizzare l'industria petrolifera, sottraendola al controllo straniero. Quell'evento rappresenta il "peccato originale" nelle relazioni tra l'Iran e l'Occidente, un trauma che ha instillato una profonda e duratura sfiducia. Per i successivi 25 anni, gli Stati Uniti sostennero il regime autoritario e repressivo dello Shah Mohammad Reza Pahlavi, percepito da gran parte del popolo iraniano come un "governo fantoccio": un sovrano sottomesso agli interessi di Washington, la cui sfarzosa modernizzazione nascondeva la brutale repressione del dissenso. La Rivoluzione Islamica del 1979, con la sua radicale teocrazia, fu anche una violenta reazione a decenni di umiliazione e sottomissione.
La spinta attuale per un "cambio di regime" in Iran, spesso ammantata dalla retorica della liberazione, non è forse un tentativo di riportare l'orologio indietro? Si può ipotizzare che l'obiettivo strategico non sia tanto la nascita di una democrazia autonoma, quanto l'installazione di un nuovo governo compiacente, che allinei nuovamente l'Iran agli interessi geostrategici ed economici occidentali, chiudendo il cerchio aperto nel 1979.
L'appoggio acritico alle strategie militari statunitensi o israeliane appare non solo ingenuo, ma profondamente pericoloso.
L'idea che Israele e gli Stati Uniti incarnino in modo incondizionato i princìpi di libertà e giustizia è una semplificazione che non regge. Le politiche estere di Washington, in particolare, sono state a lungo caratterizzate da un modello di influenza globale che, al di là della retorica, si fonda su una vasta rete di basi militari, un sistema di alleanze strategiche e l'uso pervasivo di sanzioni economiche. Questo approccio ha generato un'architettura di sicurezza che molti attori globali percepiscono a ragione come un esercizio di egemonia, in cui si stabilisce unilateralmente chi possa sviluppare certi armamenti, chi possa accedere liberamente ai mercati o chi debba essere isolato economicamente.
In questo quadro, appare una dissonanza stridente nel discorso pubblico occidentale. Mentre si condanna l'invasione russa dell'Ucraina, bollando come pretestuosa la sua dottrina di "sicurezza preventiva", si tende a mostrare maggiore indulgenza verso azioni militari analoghe intraprese dal governo israeliano sotto la guida di Benjamin Netanyahu. Le sue operazioni, che hanno causato immense sofferenze alla popolazione civile palestinese, vengono spesso inquadrate in una logica di legittima difesa, pur essendo basate su un'interpretazione estensiva del diritto all'attacco preventivo. Questa disparità di giudizio, che non tiene conto della politica di ambiguità nucleare di Israele (non firmatario del Trattato di Non Proliferazione, a differenza dell'Iran), mina la credibilità di chi si erge a paladino universale delle norme e dei diritti.
Un'analisi che si ferma alla condanna del regime iraniano, auspicando un suo rovesciamento per mano esterna, trascura alcuni elementi essenziali dello scacchiere globale. L'Iran non è un'entità isolata; è un attore cruciale in Medio Oriente, la cui stabilità è legata a doppio filo agli interessi strategici di superpotenze come la Cina e la Russia. Entrambe hanno dichiarato apertamente di voler promuovere un "nuovo ordine mondiale" multipolare, in diretta competizione con l'influenza statunitense.
Ignorare questo contesto significa non vedere il rischio più grande: un intervento militare, lungi dal risolvere la crisi, rischia di innescare una reazione a catena, A livello interno, un'aggressione esterna fornirebbe al regime la più potente arma di propaganda: il nazionalismo. Invece di indebolirlo, lo compatterebbe contro il "nemico esterno", soffocando sul nascere le complesse e coraggiose dinamiche di dissenso interno e le spinte riformiste che rappresentano la più autentica speranza di cambiamento.
A livello globale, un Iran destabilizzato potrebbe diventare il catalizzatore di un'escalation tra potenze. È plausibile ipotizzare che Russia e Cina non resterebbero a guardare, ma potrebbero cogliere l'opportunità per intervenire più direttamente nella regione, magari trasformando teatri di crisi già aperti, come la Siria, in un fronte di confronto diretto, seppur combattuto per interposta persona.
In conclusione, sostenere il popolo iraniano nella sua lotta per i diritti e la libertà è un dovere morale. Tuttavia, questo sostegno diventa controproducente se si traduce nell'avallo di soluzioni militari miopi e ipocrite, specialmente quando la storia suggerisce che dietro la promessa di liberazione potrebbe celarsi il desiderio di sottomissione. La vera solidarietà non consiste nell'invocare la spada di potenze esterne con agende complesse, ma nel coltivare un approccio basato sulla coerenza e sulla lungimiranza.
Il cambiamento in Iran, per essere autentico e sostenibile, deve maturare dall'interno. Il ruolo della comunità internazionale dovrebbe essere quello di sostenere diplomaticamente gli spazi per il dissenso e proteggere gli attivisti, non quello di promuovere bombardamenti che rischiano di generare solo un'illusoria liberazione sulle ceneri di una nuova guerra.

Roberto Vuilleumier

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