La frustrazione di fronte
alla natura oppressiva della Repubblica Islamica d'Iran è tanto
comprensibile quanto legittima. Tuttavia, per analizzare la crisi
attuale e le sue possibili evoluzioni, è indispensabile non cadere
in una visione astorica. L'ostilità iraniana verso l'interferenza
esterna, e in particolare quella statunitense, non nasce dal nulla,
ma affonda le sue radici in una memoria storica precisa e dolorosa
che oggi rischia di essere pericolosamente ignorata.
È
impossibile comprendere la psiche nazionale iraniana senza tornare al
colpo di stato del 1953 (Operazione Ajax). In quell'anno, la CIA e
l'MI6 britannico orchestrarono il rovesciamento del primo ministro
Mohammad Mossadegh, democraticamente eletto, la cui unica "colpa"
era stata quella di nazionalizzare l'industria petrolifera,
sottraendola al controllo straniero. Quell'evento rappresenta il
"peccato originale" nelle relazioni tra l'Iran e
l'Occidente, un trauma che ha instillato una profonda e duratura
sfiducia. Per i successivi 25 anni, gli Stati Uniti sostennero il
regime autoritario e repressivo dello Shah Mohammad Reza Pahlavi,
percepito da gran parte del popolo iraniano come un "governo
fantoccio": un sovrano sottomesso agli interessi di Washington,
la cui sfarzosa modernizzazione nascondeva la brutale repressione del
dissenso. La Rivoluzione Islamica del 1979, con la sua radicale
teocrazia, fu anche una violenta reazione a decenni di umiliazione e
sottomissione.
La spinta attuale per un "cambio di regime"
in Iran, spesso ammantata dalla retorica della liberazione, non è
forse un tentativo di riportare l'orologio indietro? Si può
ipotizzare che l'obiettivo strategico non sia tanto la nascita di una
democrazia autonoma, quanto l'installazione di un nuovo governo
compiacente, che allinei nuovamente l'Iran agli interessi
geostrategici ed economici occidentali, chiudendo il cerchio aperto
nel 1979.
L'appoggio acritico alle strategie militari statunitensi
o israeliane appare non solo ingenuo, ma profondamente
pericoloso.
L'idea che Israele e gli Stati Uniti incarnino in modo
incondizionato i princìpi di libertà e giustizia è una
semplificazione che non regge. Le politiche estere di Washington, in
particolare, sono state a lungo caratterizzate da un modello di
influenza globale che, al di là della retorica, si fonda su una
vasta rete di basi militari, un sistema di alleanze strategiche e
l'uso pervasivo di sanzioni economiche. Questo approccio ha generato
un'architettura di sicurezza che molti attori globali percepiscono a
ragione come un esercizio di egemonia, in cui si stabilisce
unilateralmente chi possa sviluppare certi armamenti, chi possa
accedere liberamente ai mercati o chi debba essere isolato
economicamente.
In questo quadro, appare una dissonanza stridente
nel discorso pubblico occidentale. Mentre si condanna l'invasione
russa dell'Ucraina, bollando come pretestuosa la sua dottrina di
"sicurezza preventiva", si tende a mostrare maggiore
indulgenza verso azioni militari analoghe intraprese dal governo
israeliano sotto la guida di Benjamin Netanyahu. Le sue operazioni,
che hanno causato immense sofferenze alla popolazione civile
palestinese, vengono spesso inquadrate in una logica di legittima
difesa, pur essendo basate su un'interpretazione estensiva del
diritto all'attacco preventivo. Questa disparità di giudizio, che
non tiene conto della politica di ambiguità nucleare di Israele (non
firmatario del Trattato di Non Proliferazione, a differenza
dell'Iran), mina la credibilità di chi si erge a paladino universale
delle norme e dei diritti.
Un'analisi che si ferma alla condanna
del regime iraniano, auspicando un suo rovesciamento per mano
esterna, trascura alcuni elementi essenziali dello scacchiere
globale. L'Iran non è un'entità isolata; è un attore cruciale in
Medio Oriente, la cui stabilità è legata a doppio filo agli
interessi strategici di superpotenze come la Cina e la Russia.
Entrambe hanno dichiarato apertamente di voler promuovere un "nuovo
ordine mondiale" multipolare, in diretta competizione con
l'influenza statunitense.
Ignorare questo contesto significa non
vedere il rischio più grande: un intervento militare, lungi dal
risolvere la crisi, rischia di innescare una reazione a catena, A
livello interno, un'aggressione esterna fornirebbe al regime la più
potente arma di propaganda: il nazionalismo. Invece di indebolirlo,
lo compatterebbe contro il "nemico esterno", soffocando sul
nascere le complesse e coraggiose dinamiche di dissenso interno e le
spinte riformiste che rappresentano la più autentica speranza di
cambiamento.
A livello globale, un Iran destabilizzato potrebbe
diventare il catalizzatore di un'escalation tra potenze. È
plausibile ipotizzare che Russia e Cina non resterebbero a guardare,
ma potrebbero cogliere l'opportunità per intervenire più
direttamente nella regione, magari trasformando teatri di crisi già
aperti, come la Siria, in un fronte di confronto diretto, seppur
combattuto per interposta persona.
In conclusione, sostenere il
popolo iraniano nella sua lotta per i diritti e la libertà è un
dovere morale. Tuttavia, questo sostegno diventa controproducente se
si traduce nell'avallo di soluzioni militari miopi e ipocrite,
specialmente quando la storia suggerisce che dietro la promessa di
liberazione potrebbe celarsi il desiderio di sottomissione. La vera
solidarietà non consiste nell'invocare la spada di potenze esterne
con agende complesse, ma nel coltivare un approccio basato sulla
coerenza e sulla lungimiranza.
Il cambiamento in Iran, per essere
autentico e sostenibile, deve maturare dall'interno. Il ruolo della
comunità internazionale dovrebbe essere quello di sostenere
diplomaticamente gli spazi per il dissenso e proteggere gli
attivisti, non quello di promuovere bombardamenti che rischiano di
generare solo un'illusoria liberazione sulle ceneri di una nuova
guerra.
Roberto Vuilleumier
Nessun commento:
Posta un commento